I primi giorni di nuvole nere sorpresero le nostre vite, o quel che ne restava. Dopo tanti giorni rinchiusi ci sentivamo in bilico tra vita e morte. I nostri cuori erano dello stesso colore del cielo. Eravamo in attesa di un segno, di un cambiamento. E qualcosa accadde realmente. Vennero esattamente trentatré giorni di pioggia ininterrotta. Forte. Continua. La guardavamo da dietro i vetri. Uno sguardo apatico di occhi affaticati dalla luce artificiale. Del resto, l’indicazione delle autorità era perentoria: non uscire di casa per nessun motivo, a prescindere dal tempo atmosferico. Avevamo smesso di preoccuparci di qualunque cosa potesse accadere. O di chiederci il perché.
Le finestre, il computer, il tablet, perfino qualche quadro appeso ai muri: il mondo era ormai catturato da una cornice. Vero, presunto o rappresentato. Gli alberi sotto casa cambiavano poco alla volta con le stagioni, le facce di parenti e amici, le loro voci, si assottigliavano in un collegamento dopo l’altro. Le tele sulle pareti restavano immobili ma la loro polvere finiva sulle nostre facce mentre ci guardavamo allo specchio, come foto sfocate. Ben presto però la comunicazione fu dedicata quasi esclusivamente alla condivisione di musica o film, senza nessun volto ad accompagnare il messaggio. Anche quando questo raccontava di persone che, per aver contratto la malattia, erano state portate via. Forse per sempre.
Il quarantesimo giorno, dopo che il cielo nero aveva scosso le nostre vite, come fosse davvero il segno sperato, e dopo le piogge, ci svegliammo col sole. Il cielo terso ci sfidava. Ci spingeva a muoverci. Non potevamo più restare chiusi in casa. E uscimmo. I nostri movimenti erano lenti e non ci avvicinavamo gli uni agli altri, restando almeno a un paio di metri di distanza. Solidarietà e diffidenza si mischiavano nei nostri sguardi.
Inizialmente eravamo pochi, invecchiati come fossero passati tanti anni dall’inizio dell’emergenza, e con gli occhi infastiditi dalla luce. Alcuni indossavano stivali o calosce, altri sfidavano allagamenti, pozzanghere e veri e propri ruscelli che si erano formati al posto delle strade. Poi, piano piano, comparvero tante persone. Stavamo evidentemente contravvenendo a tutte le norme rispettate fino ad allora. Quel sole e quell’aria erano la nostra primavera. Anche se in realtà non sapevamo più in che stagione fossimo. Da troppo tempo non si parlava che di quello strano essere, invisibile ai nostri occhi, che aveva seminato la morte attorno a noi. Non avevamo neppure il coraggio di nominarlo. Soltanto nelle menti di ognuno compariva la terribile parola.
Fu poi vera gioia. Dai nostri smartphone leggemmo il bollettino del giorno. Le autorità sanitarie avevano aspettato prima di dare la notizia e invitavano a recepirla con molta prudenza. Da quattro giorni non c’erano nuovi casi. Una donna, magrissima, aggrappata a un lampione, piangeva. Gioia e dolore insieme. Un uomo gridò o meglio tentò di farlo, poiché non aveva più voce. Come tutti. Anche chi non era rimasto solo aveva smesso di parlare. Si sussurravano alla persona convivente le indicazioni logistiche per l’ordinaria amministrazione casalinga. Come cucinare quel poco che ci era stato lasciato davanti alla porta di casa all’inizio della settimana. Quanto far bollire l’acqua del rubinetto e quanto aspettare prima di poterla bere.
Oltre tredici mesi di quarantena, clausura, arresti domiciliari. All’inizio ci avevamo scherzato su. Anche perché tutto avvenne lentamente. La chiusura delle scuole, dei luoghi pubblici, dei trasporti fu graduale. Ci ritrovammo chiusi in casa senza rendercene conto, fino al giorno in cui chiudemmo la porta d’ingresso, senza sapere quando l’avremmo riaperta.
I posti al sole erano quasi finiti su quello che restava del viale. Alcuni appoggiati agli alberi o ai lampioni, come la donna che non riusciva ad arrestare il pianto. Molti, non riuscendo a reggersi in piedi, si sedettero sul marciapiede, magari sguazzando un po’ con i piedi in una pozzanghera. Non avevamo il coraggio di avvicinarci. Un blindato dell’esercito comparve e sparì lentamente, come un miraggio. Erano quelli, insieme con le ambulanze, gli unici mezzi che avevamo sentito arrivare o sbirciato da dietro le persiane. Nessuno si muoveva dalla posizione raggiunta. Eravamo bloccati come personaggi di una fotografia. Come ciclisti in pista, ciascuno aspettava che un altro facesse la prima mossa: la distanza di sicurezza e il divieto del contatto con altre persone erano le ultime cose che ricordavamo del mondo esterno.
La giornata splendida, il calore dei raggi solari e una lieve brezza fresca non bastavano a rassicurare gli animi. Anche perché dietro ogni superstite si ergeva l’ombra di chi non c’era più. A quella guardavamo, per il dolore della perdita e per la diffidenza verso ciò che era vivo e vero. Qui e ora. Bastò uno sguardo più intenso degli altri. Con la stessa lentezza di prima, mentre il sole iniziava il percorso verso il tramonto, la gente iniziò ad andar via, a rientrare nelle proprie case. Senza un motivo. Per strada restarono solo le ombre.
E tornò il silenzio.
Marco Di Battista